Esiste il più famoso “questionario di Proust”. Ci abbiamo guardato bene, ma domande sulla bicicletta, zero. E allora abbiamo pensato che, per cogliere l’identità di un pédaleur o di una pédaleuse del Fiesole Cycling Collective, dovevamo rivolgerci allo spirito della voce del ciclismo, Adriano De Zan. Nasce così il Questionario di De Zan.
Risponde qui alle sue domande Paolo Brunori, fiorentino di nascita che oggi si divide fra Londra – dove insegna alla London School of Economics – e Caldine, dove ogni tanto (meno di quanto dovrebbe) pedala.
Riepiloghiamo la situazione: chi sei?
Mi chiamo Paolo. Sono un rifredino felicemente trapiantato a Caldine. Lavoro a Firenze e a Londra e possiedo due biciclette una gialla e una blu.
Quando nasci ciclista?
Il mio primo ricordo da ciclista risale alla scuola materna quando cercavo di non mettere il piede a terra seguendo mio babbo sulla salita di via Ernesto Rossi, andando all’asilo. Poi c’è un altro episodio importante. Doveva essere l’Agosto della fine degli anni 80, non avevo 10 anni, ed ero in Val Badia con la mia famiglia. Vennero ospiti da noi mi cugino Luca e il suo amico Franco, che avevano attraversato in bici l’Austria e negli stessi giorni arrivarono, nell’appartamento sopra, anche Francesco e il suo amico Normanno che arrivavano da Firenze con le borse e la tenda caricate sulla bici. Erano anni in cui queste cose, se si escludevano tedeschi e olandesi, non le faceva nessuno, e io pensai che avrei voluto diventare uno di loro.

Il tuo soprannome su due ruote.
Da piccolo Dondi, da una presa in giro rivolta originariamente a Gimondi “Dondi, Dondi, con gli occhi rotondi, la testa quadrata e la bici scassata”.
Hai mai dato un nome alla tua bici?
Io no, ma avevo una bici con un nome. Era una bici da “corsa” che aveva un contachilometri a lancetta smontato da un motorino e un buffo cambio con enormi leve di plastica che spuntavano dal manubrio. Metello, amico di scuola e poi compagno di squadra, la battezzò “la Grù” e quel nome è rimasto finché è stata con me.
Il tuo pantheon ciclistico.
Nel mio pantheon ci sono corridori che hanno avuto il coraggio di fare cose improbabili. Per questo ho amato Indurain ai mondiali, l’ostinazione di corridori come Coppolillo o De Gendt e la San Remo di Nibali. L’attacco sul Colle delle Finestre è riuscito a farmi rivalutare perfino Froome.
Il dono di natura che hai.
Posso gestire le mie energie in modo preciso su una salita o su un percorso di 100km. In quasi 40 anni che vado in bici mi è capitato di sopravvalutarmi in solo tre occasioni (che ricordo bene).
Il dono di natura che vorresti avere.
Vorrei saper scendere una discesa senza rischiare il dritto a ogni tornante.
Il terreno a te più congeniale.
Cronoscalata. Un esercizio quasi più cerebrale che fisico.
Le discese sono salite viste al contrario o viceversa?
Da fiorentino e da caldinese necessariamente la discesa è sempre il ritorno. Ma capisco che per voi fiesolani la prospettiva possa essere diversa.
Ti senti enfant du pays? O ti si addice di più nemo propheta in patria?
Sicuramente non sono enfant du pays. Le due squadre in cui ho corso si trovavano a S. Bartolo a Cintoia, praticamente un’altra regione dal punto di vista di un adolescente di Rifredi negli anni 90 e a Sesto Fiorentino. In effetti Firenze città non ha nessuna tradizione ciclistica. Il ciclismo è un fatto che riguarda la provincia. E questo fa parte del suo fascino.
Red Bull o Paniagua?
Ho orrore di integratori, gel e cose del genere. Ma più che pane e acqua per me è tassativamente cappuccino e cornetto.
Cosa pensi dei ciclisti che non mettono il caschetto protettivo?
Per me ormai è diventato come lavarsi i denti, se non ce l’ho mi sento nudo. Ma non ho nulla contro i nudisti né in spiaggia né in bici.
Colpo di reni o colpo di mano?
Il colpo di reni è il culmine dell’eleganza del gesto sportivo in bici. Una raffinatezza a me inaccessibile (l’unica volta in cui mi sono giocato una gara in volata sono finito sbraciolato sul marciapiede a Montespertoli). Il colpo di mano invece ha mille varianti, compresa quella del colpo di culo, che è per definizione accessibile a tutti.
Perché il vento è sempre contrario?
Quando le cose della vita non sono esattamente come ce le aspettiamo tendiamo a vederne soprattutto i lati negativi. Allo stesso modo se l’unico vento a favore che percepiamo è quello che soffia esattamente nella direzione in cui viaggiamo la probabilità di incontrarlo per definizione tende a zero.
Un giorno in sella indimenticabile.
6 Settembre 1997, una delle mie ultime gare, cronoscalata di Sesto Fiorentino – Monte Morello, la gara organizzata dalla mia squadra la Ciclistica Sestese. Mi ricordo il pranzo alla Casa del Popolo con la televisione accesa sulla diretta dei funerali di Lady Diana. Poi la gara con tanti amici a urlare sullo strappo del Castellare, dove si passava molto lenti con il 39X28. Arrivai quarto a 1’ e 03’’ dall’australiano Michael Rogers. Mi ricordo l’imbarazzo degli organizzatori alla premiazione perché nessuno sapevo un po’ di inglese per intervistarlo o anche solo fargli i complimenti. Quasi 20 anni dopo mi emozionai nel vederlo vincere sul Monte Zoncolan in una tappa del Giro.

Quel che detesti più di tutto quando si parla di ciclismo e ciclisti.
Quando ne parlano gli automobilisti sicuramente il fastidio che ci riservano. Quando parliamo di noi stessi sono sempre più rattristato dallo spazio crescente che i social (Strava in primis!) occupano nelle nostre conversazioni.
La volta che hai messo piede a terra.
Agosto 1993. Di nuovo in vacanza in Val Badia con la mia Grù. Avevo smontato il contachilometri da motorino e avevo attaccato ai pedali dei puntapiedi fatti con lo spago da cucina. Decido che avrei fatto i mitici quattro passi, nel mio immaginario farli significava diplomarsi ciclista vero. E in effetti era un’impresa non banale per un quattordicenne con una bici che sarà pesata 15 kg. Metto due panini con il roastbeef in uno zaino e senza nessuna attrezzatura, semplicemente in maglietta a maniche corte e K-Way, mi incammino verso il Passo Gardena. Poi affronto il Sella e il Pordoi. Sul Pordoi uso gli unici soldi che avevo per comprare un Krapfen alla marmellata di albicocche. Erano già le tre del pomeriggio ed ero distrutto. Mi butto in picchiata su Arabba e inizio il Campolongo zizzagando. Se avete salito il Campolongo da quel versante ricorderete un primo interminabile rettilineo in direzione del Livinallongo, prima che la strada svolti a sinistra verso gruppo del Sella. Ecco, non sono mai arrivato al primo tornante, a metà di quel rettilineo misi il piede a terra e mi fermai su una panchina, incapace anche solo di immaginare di ripartire. Il tempo passava e si faceva buio, fortunatamente Paolo, un amico dei miei, ebbe l’idea di venirmi incontro con l’auto percorrendo il Sella Ronda in senso orario. Mi recuperò e mi riportò a Pedraces. La mattina dopo mi svegliai con 39 di febbre. Mi ricordo benissimo che Paolo mi venne a trovare e mi disse che dovevo scegliere: nel racconto di quella giornata potevo omettere che il quarto passo non l’avevo finito oppure potevo non raccontare della febbre. Ma non avrei potuto mentire su entrambe le cose. Non ricordo cosa scelsi alla fine.
Un episodio che non puoi fare a meno di raccontare.
Una gara che arrivava a Osteria Nuova, si saliva a San Donato un paio di volte sia da Incisa che da Bagno a Ripoli. Ma la fuga decisiva partì sul Carbonile. Uno strappetto all’apparenza insignificante fra Pontassieve e Rignano. Ero un po’ dietro ma intuisco esattamente cosa sta succedendo. È la fuga giusta. Queste cose avvengono in pochi secondi e muoversi in tempo è cruciale. Brugaletta, Bernucci, Adani, quelli forti, si sganciano e si crea un buco. Parto dalla terza o quarta fila con un rapporto lungo. Prendo il gruppo di sorpresa e colmo velocemente metà del gap che separa i tre dagli inseguitori. Vicino allo scollino comincio a sentire che sono al limite delle forze. La velocità con cui mi avvicino ai tre diminuisce. Mi volto e vedo il gruppo tutto allungato. 50 metri dietro di me. 30 metri avanti c’è la fuga. Il mio cervello mi dice “fermati, tanto ora li riprendono”. Alleggerisco due denti. Mi faccio riassorbire dal gruppo. Rivedo i tre della fuga un’oretta dopo, sul podio allestito davanti alla Casa del Popolo che festeggiano. Questo piccolo episodio mi è tornato in mente all’improvviso una notte, anni dopo. E l’ho interpretato come un insegnamento fondamentale. Non tanto per la bici, quanto per la mia vita in generale. Da quel giorno quando mi sono accorto che il mio cervello mi diceva “fermati, tanto li riprendono” mi sono detto che era il momento di alzarsi sui pedali e rilanciare. E qualche volta ci sono riuscito.
Consigli a chi inizia: una cosa da fare e una da non fare.
Partire un giorno d’estate alle sette di sera, salire a Fiesole e poi proseguire verso Vetta le Croci, Casa al Vento e Bivigliano. Da Bivigliano salire a Monte Senario. Scambiare due parole con gli ultimi fiorentini che ripiegano le sdraiette da spiaggia e se ne vanno dopo aver goduto del fresco degli abeti tutto il giorno e poi restarsene nel silenzio a guardare il tramonto seduto sul muretto del convento. Scendere verso casa, attraversando i prati di via di Monte Senario, quando ormai è quasi buio. Qualsiasi sia l’umore con cui sei partito è una cosa che ti rimette in pace con il mondo.
Una cosa da non fare per chi inizia è attaccare le salite con un passo troppo sostenuto. Il problema fondamentale che ho osservato per chi inizia ad andare in bici è non rendersi conto di quanto si possa andare piano senza fermarsi. E di quanto sia utile. Non iniziare mai forte una salita e trova il tuo passo strada facendo.

Cosa ci fai nel Fiesole Cycling Collective?
Forse troppo poco! Sono un ciclista caldinese, come potrei non esserne in qualche modo coinvolto? Mi piace la natura fondamentalmente anarchica dell’organizzazione a cui si può partecipare senza necessariamente appartenere formalmente.
Il tuo motto.
Dopo il tornante spiana!