il questionario di de zan: Corrado Casini

Esiste il più famoso “questionario di Proust”. Ci abbiamo guardato bene, ma domande sulla bicicletta, zero. E allora abbiamo pensato che, per cogliere l’identità di un pédaleur o di una pédaleuse del Fiesole Cycling Collective, dovevamo rivolgerci allo spirito della voce del ciclismo, Adriano De Zan. Nasce così il Questionario di De Zan.
Risponde qui alle sue domande Corrado Casini, fiorentino di nascita ma fiammingo nel cuore, l’uomo che sta bene in un posto solo: in bici (ma chi lo conosce sa che non è vero).
Riepiloghiamo la situazione: chi sei?

Nella mia vita, che va avanti da 54 anni e mezzo, mi sono sempre sentito nel posto sbagliato. Non so quando mi sono ammalato. Per quello che ricordo, sono da molto tempo affetto da una strana forma di altrovite.
La conosco ormai da un pezzo la mia malattia. Sono sempre scontento di quello che faccio, di come vivo, e desidero fare qualcos’altro. Ma se, per assurdo, lo facessi, quel qualcos’altro, sarei ugualmente scontento.
Sono in un posto e vorrei essere da un’altra parte. Altrove.
L’unico posto e l’unico momento dove non mi sento a disagio è sulla bicicletta.
Quando appoggio le chiappe sul sellino, aggancio i pedali, metto le mani sul manubrio e la schiena si distende, allora, in quel momento, penso di essere felice.

Quando nasci ciclista?

Ci sono due date da ricordare. 6 agosto 1972. Avevo poco meno di 6 anni e in campeggio, a Vada, in compagnia del mio nonno Cesare e di altri campeggiatori, in un minuscolo televisore in bianco e nero, mi capitò di vedere il drammatico arrivo del Mondiale di ciclismo a Gap, quando Franco Bitossi si piantò a pochi metri dal traguardo e fu superato da Marino Basso. La bellezza tragica (o forse tragicomica, anzi melodrammatica) di quella sconfitta è uno dei fragili pilastri su cui si è costruita la mia idea di ciclismo (e di sport in generale). Quasi tutti imparano ad andare in bici da piccoli e non conservano ricordo del momento esatto in cui riescono a stare in equilibrio sulle due ruote. Io ho imparato tardissimo. La mattina del 5 agosto 1981 il mio nonno, sempre lui, mi mise sulla canna della sua vecchia bici da passeggio e mi portò alle Cascine, dove nel giro di mezz’ora mi staccai dalla sua presa e pedalai da solo. Ancora non ho smesso.

Il tuo soprannome su due ruote.

Roger de Knoeien, per la maglia della Brooklyn che gioiosamente talvolta indosso, in ricordo di Roger De Vlaeminck (o De Plaming, come diceva il mio nonno), con in più una maccheronica fiamminghizzazione del mio cognome.

Quando Corrado Casini si trasforma in Roger de Knoeien succedono cose strane. Qui lo (li?) vediamo in azione durante la Muretti Madness 2020 con la storica maglia della Brooklyn in sella alla “Celestiale” Bianchi Sprint.
Hai mai dato un nome alla tua bici?

Ho avuto sette biciclette. Ho dato un nome alla seconda e alla settima. La seconda, la prima da corsa, fu quella che il mio nonno costruì per me, nella primavera del 1987. Il telaio l’aveva trovato mio zio Enrico, abbandonato su una strada (mio zio era specializzato nel raccogliere le cose più disparate che la gente abbandona per strada, accanto ai cassonetti della nettezza urbana, ma non solo). Aveva delle filettature “straniere” che mal si adattavano alla componentistica disponibile in Italia. Il nonno verniciò quel telaio di nero e ci costruì la bici con la quale ho iniziato a conoscere le strade della provincia e ci ho fatto i miei primi viaggi da cicloturista europeo. Olanda 1987. Normandia e Bretagna 1988. Un po’ di Camino de Santiago 1990. E i primi massacranti viaggi a Siena e all’Argentario. La dovetti buttare perché non più riparabile, dopo che si ruppe il movimento centrale, il 27 aprile 1992. Quel giorno, poi, andai ai funerali di Ernesto Balducci. Ricordo che la chiamavo Medea. Forse perché a quel tempo trovavo ancora ispirazione nella letteratura e nel teatro. La settima, quella che uso adesso, è una Bianchi Sprint che mi regalò due anni fa una cordata di amici. È stata una vera e propria rivoluzione per il mio modo di andare in bici. E la chiamo, talvolta, Celestiale. Heaven can be a place on earth.

1987, Volendam, Olanda. Sulla sinistra un giovane Corrado Casini posa assieme ai suoi compagni di viaggio nella prima avventura cicloturistica della sua vita.
Il tuo pantheon ciclistico.

Cesare Griffini, Francesco Moser, Godi Schmutz, Wout Van Aert.

Il dono di natura che hai.

Riuscire a vivere ogni uscita in bicicletta, anche breve, come un viaggio degno di essere raccontato.

Il dono di natura che vorresti avere.

Un cuore che non si impenna tutte le volte che la strada si rizza sotto le ruote.

Il terreno a te più congeniale.

Nel gergo, comune a molti ciclisti, viene definito mangia e bevi. A me questa espressione non è mai piaciuta. Preferisco dire, ibericamente, che mi piacciono i toboganes, i saliscendi, soprattutto della Navarra o della Castilla y Leon

Spagna, 1990. I toboganes-rumpe-piernas della Castilla-y-Leon mettevano a dura prova gli allora giovani ciclisti. Casini, non per nulla in maglia rosa, sembra il più fresco di tutti. Sullo sfondo, con il k-way, il misterioso protagonista del mistero della Colla di Casaglia (si veda dopo). Sulla sinistra compare anche Frank Joop Giovannini, mentre Simone El Guilpero Rojo Chiappi fa segno di sbrigarsi al fotografo, Luca “Lucho” Moreschini.
Le discese sono salite viste al contrario o viceversa? 

Ma poi ch’i’ fui al piè d’un colle giunto,
là dove terminava quella valle
che m’avea di paura il cor compunto,
guardai in alto e vidi le sue spalle
vestite già de’ raggi del pianeta
che mena dritto altrui per ogne calle.
Allor fu la paura un poco queta,
che nel lago del cor m’era durata
la notte ch’i’ passai con tanta pieta.
E come quei che con lena affannata,
uscito fuor del pelago a la riva,
si volge a l’acqua perigliosa e guata,
così l’animo mio, ch’ancor fuggiva,
si volse a retro a rimirar lo passo
che non lasciò già mai persona viva.
Poi ch’èi posato un poco il corpo lasso,
ripresi via per la piaggia diserta,
sì che ’l piè fermo sempre era ’l più basso.


Le salite non mi fanno paura, perché l’ascesa è sempre un processo di elevazione, di liberazione, di conoscenza. Sono le valli che mi riempiono di paura il cuore e le discese sono sempre un po’ un viaggio agli Inferi.

Ti senti enfant du pays? O ti si addice di più nemo propheta in patria?

Correre sulle strade di casa mi è sempre piaciuto. Ma anche scoprire ogni volta strade ignote. E poi tornare a godere del piacere del ritorno ai paesaggi noti. Ma quali sono le strade di casa? Di quale paese potrei dirmi figlio? Tutto il mondo è paese, si dirà. Se si considera però che, in fin dei conti, sono un ragazzo di San Bartolo a Cintoia, dal confronto con gli eroi locali, i fratelli Casagrande, non potrò che uscire sempre sconfitto.

Red Bull o Paniagua?

L’importante è mangiare e non fare come me e il nostro presidente quando il 15 giugno 1991, in un viaggio ciclistico da Firenze a Cesena tralasciammo di alimentarci per tutto il tratto finale, né a Castrocaro, né a Forlì, e quando arrivammo allo strappo che portava alla villa alla Massa, la meta del nostro viaggio, ci trovammo con le gambe vuote. A stento arrivammo in cima alla collinetta. Posammo le bici e collassammo per ore su delle nude cassepanche.

Cosa pensi dei ciclisti che non mettono il caschetto protettivo?

Siamo ormai tutti così abituati ad usare il casco che quando incrociamo un ciclista con la testa nuda ci sembra qualcosa di strano.Siamo tutti consapevoli dell’importanza dell’uso del casco.Ma la campagna promossa dal sindaco del comune di pianura confinante con Fiesole, che vorrebbe rendere obbligatorio il casco per chiunque va in bici, invece di lavorare seriamente per rendere sicure le strade per chi si sposta in bici, è davvero intollerabile.

Colpo di reni o colpo di mano?

Soprattutto è bene evitare il colpo di sonno.

Perché il vento è sempre contrario?

Perché ogni viaggio in bicicletta è la più perfetta metafora della vita. E la vita è un calvario, si sa.

Un giorno in sella indimenticabile.

19 luglio 1992. Una data che l’Italia ricorda soprattutto per la strage di via d’Amelio con l’uccisione di Borsellino. Ma che nella nostra piccola cerchia di cicloturisti europei viene ricordata per il Mistero della Colla di Casaglia. Eravamo tornati a Cesena, come l’anno prima. Ma più in forze. Eravamo in 5. Io, il presidente Frank Joop, Lucho Moresquera, e i due “iberici”, il Guilpa e il Tona. Domenica 19 luglio era il giorno del rientro a Firenze, dopo 4 giorni di mare romagnolo. Al tour de France si correva la tappa dell’Alpe d’Huez. Partimmo non propriamente all’alba. Cesena. Faenza. Brisighella. Marradi. Una giornata caldissima. Quando la strada iniziò a salire il Tona si staccò. A Crespino sul Lamone ci fermammo ad aspettarlo. Ma non arrivava. Dopo venti minuti ripartimmo comunque e inspiegabilmente lo ritrovammo davanti a noi sulla salita. In cima alla Colla ci fermammo a un bar a vedere l’arrivo della tappa, vinta da Andy Hampstein, con Gianni Bugno staccato di 9 minuti. Tutti pensammo che si fosse fatto dare un passaggio da un furgoncino. Ma non lo ammise. E non l’ha mai ammesso nei 30 anni successivi. Aspettiamo ancora la confessione.

Quel che detesti più di tutto quando si parla di ciclismo e ciclisti.

L’intolleranza sempre più diffusa verso i ciclisti e, in generale, quel certo fastidio che spesso si percepisce nei confronti di chi usa la bicicletta, nella quotidianità. La bicicletta, che è stata uno straordinario veicolo di progresso, di emancipazione, di uguaglianza, dalla sua invenzione fino almeno agli anni 60 del secolo scorso, grazie alla cecità di chi tiene le redini del mondo (o quanto meno di quello di casa nostra) è stata relegata in un angolo delle nostre città, dove ormai da troppo tempo sono le automobili che comandano. “When man invented the bicycle he reached the peak of his attainments. Here was a machine of precision and balance for the convenience of man. And (unlike subsequent inventions for man’s convenience) the more he used it, the fitter his body became. Here, for once, was a product of man’s brain that was entirely beneficial to those who used it, and of no harm or irritation to others. Progress should have stopped when man invented the bicycle.” – Elizabeth West, Hovel in the Hills

La volta che hai messo piede a terra.

Oltre a un episodio sul Mostro, nel maggio 1984, su cui mi soffermerò in una prossima domanda, vale la pena ricordare che nell’estate del 1987 dopo un viaggio ciclistico nella piatta Olanda con un gruppo di amici e amiche, capitanati dal presidente Joop, mi sentii pronto per affrontare per la prima volta l’impresa verso Siena, la mia seconda patria. Nel viaggio di andata riuscii a restare sempre in sella, anche sulla salita di Castellina, comunque molto impegnativa per le mie gambe ventenni e per i rapporti della mia Medea. Ma al ritorno, la mattina del 25 agosto, sulla salita che da Poggibonsi porta a Barberino fu i “costretto a condurre manualmente il mezzo per quasi un chilometro di allucinante pendio” (dal diario dell’epoca). Con la mia penultima bicicletta, la De Rosa col telaio in acciaio che comprai il 15 giugno 1992, usata, nel negozio di Roberto Poggiali, in piazza del mercato a Scandicci, rarissimamente mi è capitato di dover arrendermi e scendere di bici. L’ultima volta mi è successo il 30 settembre 2018, quando volevo preparare la Muretti Madness e mi avventurai su per la via di Pisignano, ai più nota come la “Carla Fracci”. Le mie gamberelle non furono capaci di spingere il 42-28 su per la pettata. Misi il piede a terra dopo due curve e me ne tornai tristemente in giù. Aspetto ancora di trovare la voglia di riprovarci. Ma so già che la Celestiale non mi tradirà.

Un episodio che non puoi fare a meno di raccontare.

Dai 12 ai 34 anni ho tenuto, con rare pause, un diario giornaliero. Una scarna cronaca degli incidenti della mia esistenza. Solo grazie al diario sono adesso in grado di ricostruire che il mio primo giro in bici di una minima entità avvenne la mattina del 16 maggio 1982. Riporto testualmente: “Mi alzo alle 7.45 circa. Telefono al Depo (mio compagno di classe di allora e possente pedalatore). Gli hanno rubato la bici e non viene con me. Alle 10 circa esco con il nonno in bici. Facciamo il seguente itinerario. Cascine, ponte alla Vittoria, porta Romana, San Gaggio, Due strade, S.Quirico (non credo di essere salito a San Quirichino, più probabilmente abbiamo fatto la via delle Bagnese, valicando il dosso delle Romite/Campora, dove vivo adesso), Scandicci, S.Giusto e torniamo a casa. Faccio il bagno. Viene Roby (ex compagno delle medie e compagno di curva Fiesole). Poi pranzo. Quindi in centro. Notizie delle partite. Fiorentina-Cagliari 0-0. Abbiamo perso lo scudetto”. Una giornata decisamente memorabile.

Consigli a chi inizia: una cosa da fare e una da non fare.

Farsi prendere le misure da un bravo biomeccanico e comprare la bicicletta giusta per il proprio corpo. Non smettere mai di essere curiosi quando si decide l’itinerario dell’allenamento, escursione o viaggio che sia. Muoversi su una bicicletta deve essere ogni volta una scoperta.

Cosa ci fai nel Fiesole Cycling Collective?

In un pomeriggio di maggio del 1984, quando avevo diciasett’anni, per combattere il dolore di un abbandono presi la bici da passeggio del mio nonno e mi misi a pedalare. L’unica cosa che avevo in testa era Fiesole, perché lì stava l’origine di quel dolore. Ma la presi larga. Attraversai la città, costeggiai l’Arno fino alle Sieci, presi la strada per l’Olmo. Ma non la conoscevo. Mi trovai davanti una salita impossibile per le mie forze di allora e per una bici degli anni ’40, senza rapporti. Dovetti scendere più volte e spingerla a mano. Poi discesi rapidamente verso Fiesole quasi senza voltarmi a guardare gli abitanti della cittadina e tornai a casa che era l’ora di cena. Solo molti anni dopo scoprii che quella salita terribile la chiamano il Mostro. Ancora oggi, a tanti anni di distanza, la bici continua ad avere la stessa funzione. E il Mostro continua a farmi lo stesso effetto. Fortunatamente ho qualche muscolo in più nelle gambe e un mezzo più moderno a disposizione. Ma la sostanza non cambia.

Il tuo motto.

Motu nulli molesta suo: Non disturba nessuno nel suo movimento. Era il motto di Don Antonio, un principe di casa Medici vissuto a cavallo fra il XVI e il XVII secolo. Nella sua impresa c’era un globo (un pianeta, una palla medicea?), che si muove senza recar danno a nessuno. Però si muove, inarrestabile. Se fosse la mia impresa metterei una bici al posto del globo

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