Ci sono gli amanti delle salite, quelli delle discese e quelli che spingono forte in pianura. C’è chi preferisce il cornetto, chi la crostata, e chi non teme il bombolone alla crema. Ma il budino di riso mette d’accordo tutti. O no? Si apra il dibattito.
Ecco caldo caldo il nuovo Budino di riso, la rubrica di Alessandro Bastida alla scoperta di strade, biciclette e pasticcerie.
Quali oscuri percorsi psicologici spingono innumerevoli persone, in apparenza mentalmente equilibrate, a passare centinaia di ore l’anno in sella a una bicicletta?
Una patologia diffusa che porta a imboccare strade di assolutismo integralista tali da condizionare per anni pensieri, amicizie e (quasi) tutti i fine settimana. Una dipendenza che spinge a superare anche condizioni meteo avverse o le più elementari regole di buonsenso e che può colpire tutti, ormai è sempre più diffusa e trasversale. Si manifesta su giovani e anziani, uomini e donne, dirigenti e operai, dipendenti e liberi professionisti di ogni ceto sociale.
Chi non ne è affetto ci ripete, scuotendo la testa, sempre la stessa domanda: “ma chi te lo fa fare?!”

Molti di noi rispondono che vogliono scaricare lo stress, confondendo l’effetto con la causa. In realtà la droga mentale che crea la nostra dipendenza è una sola: la fatica.
Nella fatica tutto è concentrato sulle funzioni elementari, non c’è spazio per le sofisticazioni. La fatica è il magico momento del ritorno a concetti base, semplici, essenziali. E’ il punto di ritorno al pensiero-primario.
La fatica è fisica, ma si vince solo con la testa. E’ individuale, ma accomuna e annulla barriere sociali. Crea solidarietà e rispetto tra chi la prova. I ciclisti, come i montanari, si salutano, anche senza conoscersi. Quelli che ti sorpassano con il SUV, invece, ti ricoprono di improperi. Quando va bene.
E’ perché non conoscono e, quindi, non capiscono la bellezza della fatica.
La fatica è purezza, è il pensiero-primario costretto alle funzioni vitali.
“Ho già messo il 28?”, “Ieri sera ho mangiato troppo”, “Forse dopo la curva spiana”, “Quanto manca per arrivare in cima?”, “Dovevo fare pipì prima di uscire”, etc.
Nella fatica, in bici, il tempo è scandito solo dalla cadenza della pedalata.

La riprova che la nostra passione per il ciclismo affondi le radici nella fatica è nella ricerca ossessionata delle salite. Sono loro la sostanza del ciclismo amatoriale. Senza le salite la bicicletta sarebbe solo un mezzo di trasporto che, infatti, nella versione “da passeggio” è più diffusa nei paesi in pianura. Il “nostro” ciclista, invece, adora e venera la salita come una divinità pagana. E’ lei che può dargli quella serenità mentale a cui non sarà più in grado di rinunciare.
In questa visione la discesa può essere solo il premio ricevuto per la conquista. Il piacere della discesa è il senso di appagamento che viene dopo aver fatto la salita. La pianura è la transizione verso la salita. Non c’è discesa senza salita, non c’è piacere senza sacrificio. Elementare, ma non banale.
Al concetto di fatica è legato quello di leggerezza, ma questa è un’altra storia.