Bikingman Corsica: il racconto

Di Frank Joop (aka Franco Giovannini)
Bikingman Corsica è una gara di ultracycling senza supporto di mille chilometri che parte e arriva a Bastia dopo aver percorso tutto il periplo dell'isola. All'edizione 2022 erano iscritti 200 partecipanti da molti paesi. Il vincitore, Stéphane Lombard, ha impiegato soltanto 42 ore per completare la prova. Questo è il racconto dell'esperienza di Franco Giovannini, ciclista fiorentino di nascita e fiesolano di adozione, noto anche come Frank Joop quando è in sella. Un altro articolo descrive la lunga preparazione all'evento. 

A Bastien Mattei (1972-2022)

Il traghetto attracca puntuale. Scendo rapidamente nel garage. La bici è ancora lì, intatta, con le borse montate. Lascio defluire le auto davanti a me e, accompagnando la bici a mano, scendo a terra. Da qui al campeggio sono solo una dozzina di chilometri. Attivo la traccia sul GPS e monto in sella. Dal porto verso il centro di Bastia, poi la zona periferica sud, stradoni trafficati. Poi finalmente un ponte, il Lido de la Marana, la laguna, il campeggio. Dopo tutti questi mesi ci siamo, per davvero. Ce la farò?

indice

La domenica nel villaggio
1. C’è sempre una prossima salita [Bastia-Zicavo, 266 Km]
2. L’inferno dell’Ospedale [Zicavo-Pietra Rossa, 245 Km]
3. Il giorno piu’ lungo [Pietra Rossa – Speloncato, 260 Km]
4. Finisher [Speloncato – Bastia, 180 Km]
Epilogo
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La domenica nel villaggio

Domenica 5 giugno. Camping San Damiano, nella lingua di terra fra lo Stagno di Biguglia e il mare, pochi chilometri a sud di Bastia. Da qui, domattina alle 5, prenderà il via la quinta edizione di Bikingman Corsica, una gara di ultracycling di mille chilometri, la prima del genere a cui partecipo. Sono arrivato in traghetto da Livorno ieri sera, e ho trascorso la notte in un bungalow che divido con altri due partecipanti: Bastien, un parigino con radici corse, anche lui come me alla prima esperienza; Tommaso, italiano di Verona, indossa una maglietta “Race Across Italy”: si capisce che non è un novellino. Socializziamo facilmente. Ci unisce lo stesso obiettivo, anche se ognuno arriva qui con la sua storia.

La mia, di storie, parte da lontano: dai primi viaggi in bicicletta dei vent’anni, dalle pianure olandesi alle cime dei Pirenei e delle Alpi, alle scorribande sugli Appennini e finalmente, in anni più recenti, al bikepacking e alle traversate fra l’Italia e la Francia. Ma questa è un’altra cosa, per molti motivi.

La distanza, innanzitutto: mentre nel cicloturismo difficilmente capita di superare i cento chilometri al giorno, qui si parla di – come minimo – di duecento. “Come minimo” perché non ci sono tappe prefissate; ognuno è libero di organizzarsi come meglio crede, a patto di seguire rigorosamente il percorso previsto e completarlo entro il tempo massimo, fissato in cinque giorni. La salita: tanta, diciottomila metri di dislivello in totale. Il sonno: ci sarà chi non dormirà affatto o quasi, chi lo farà con rapide soste sul ciglio della strada, chi invece si concederà un riposo – magari breve ma confortevole – in un hotel. La notte: pedalare al buio sarà la regola, se non si vuol rischiare di andare fuori tempo massimo. Caldo, pioggia o freddo: non si può scegliere, e bisogna affrontare quello che verrà, facendo di tutto per proseguire comunque. Il tutto unsupported, senza alcun aiuto.

Niente auto al seguito, niente amici o parenti sul percorso; nessuna forma di collaborazione è ammessa, neppure fra i partecipanti; è vietato stare in scia. Orientamento, problemi meccanici, problemi fisici, trovare cibo, trovare dove dormire: in questo tipo di gare si è soli dal primo all’ultimo metro. Ed è proprio questo, unito al fatto che si tratta di una gara, l’aspetto che affascina e al tempo stesso inquieta. Non vince semplicemente chi pedala più veloce, ma chi riesce a fermarsi meno, a tenere mentalmente nonostante la fatica – che presto o tardi presenterà il conto – e affrontare gli imprevisti che – inevitabilmente – accadranno.

L’atmosfera al Race Village è eccitante. Incrocio molti partecipanti, ci scambiamo un rapido saluto, sguardi curiosi e indagatori (pensiero ricorrente: “è sicuramente più forte di me”), qualche impressione, timore, speranza. L’organizzazione Bikingman è molto efficiente, e al tempo stesso “calda”, familiare. Sotto un grande padiglione di legno i Race Angels, i volontari che presidiano la corsa, accolgono i partecipanti per la registrazione e il controllo delle bici e dei materiali obbligatori. E’ il mio turno. Numero 183. Bici ok (peso ufficiale 12,9 Kg senza contare acqua e cibo), luci ok, giubbotto catarifrangente ok, casco, guanti ok…tutto bene. Foto ufficiale con bici, dove un mezzo sorriso forzato tradisce la tensione che ho dentro. Nel pomeriggio, Axel, il boss di Bikingman, ci riunisce tutti per un briefing dove ci ricorda le regole della corsa e ci fornisce gli ultimi dettagli: c’è un’allerta incendi (ma non sembra preoccupante); c’è un rally di auto d’epoca che rischia di bloccarci se non riusciamo a superare i 200 Km entro il giorno successivo. C’è da far attenzione, in cima al Cap Corse, a seguire il percorso indicato sulla traccia, non sbagliate! Seguite le indicazioni Barcaggio! Bar-cag-gio!! Ripete Axel, memore di errori clamorosi in precedenti edizioni. Sorridiamo, ma la tensione cresce. 

E’ domenica, il giorno prima della gara, e dovrei rilassarmi. Invece, dopo mesi di preparazione, quando mancano poche ore alla partenza, ci sono ancora tante piccole cose di cui occuparsi: attaccare i numeri di gara e gli adesivi catarifrangenti; prendere le decisioni dell’ultimo momento, controllare le previsioni del tempo (sono buone, rinuncio a portare gambali, copriscarpe e guanti più pesanti); risolvere gli imprevisti (l’attacco del faretto anteriore che si è spaccato durante il viaggio); preparare il cibo (comprare e fare i panini, pensare alla colazione della mattina dopo, valutare se portare o no proprio tutte le barrette e i gel); verificare che le tracce GPS siano caricate facendo una prova sul percorso…

Solo verso le sei e mezzo riesco a fare una capatina sulla spiaggia. Finalmente tutto è pronto, penso. Ma per qualcono non è così. Vedo passare dei messaggi sulla chat dei partecipanti: Nicolas, un giovane francese, ha lanciato un S.O.S.! Il suo bagaglio non è arrivato con l’aereo, gli manca praticamente ogni cosa. In una corsa contro il tempo, è riuscito a trovare una bici, delle borse, molti accessori. Gli offro il mio GPS di riserva, ma alla fine manda un messaggio in cui ringrazia tutti, ma rinuncia. Che stress, e che delusione dev’essere, dopo mesi di preparazione. Non so come avrei reagito se fosse successo a me. Lui ha deciso di rimanere come volontario, unendosi ai Race Angels. Lo incontro e gli esprimo la mia solidarietà.

Cena al ristorante del camping, pizza e ultimi scambi con i compagni di bungalow. Tommaso ha un problema alla leva del cambio ma la prende con filosofia, da ultraciclista esperto qual è: “ogni gara ha qualcosa di speciale, e capita sempre un imprevisto che devi gestire”. Quale sarà il mio? Penso. Bastien ci racconta che passeremo vicino al paese della sua famiglia paterna. E’ un po’ preoccupato dal grande dislivello che ci attende, lui che ha fatto quasi tutta la preparazione nei dintorni di Parigi, prevalentemente in pianura. Vorrei rassicurarlo ma, nonostante di salita ne abbia fatta parecchia durante la preparazione, è anche il mio maggior punto interrogativo. Come reagirò all’ennesima salita dopo i duecento chilometri? Torniamo al bungalow, e verso le dieci ci ritiriamo nelle nostre stanzette. Leggo un po’ per conciliare il sonno, ma quando spengo la luce, il sonno non arriva. 

1. c’è sempre una prossima salita

Sveglia alle quattro. La notte è stata breve, sonno poco o niente. Consumo una rapida colazione assieme a Bastien e Tommaso. Le bici sono già pronte dalla sera precedente. Indosso il giubbotto catarifrangente, accendo il faretto e mi muovo silenzioso sullo stradello del campeggio verso il punto di ritrovo, dove stanno convergendo gli altri 157 partecipanti. Cerco con lo sguardo persone che ho conosciuto ieri. Rapidi scambi che confermano la tensione che sento dentro di me. Saluto Federico, abita nel Mugello, non lontano da me, ci eravamo scritti prima di arrivare, ora eccoci qua. Tutto sta accadendo velocemente. Bevo un ultimo caffè e mi incolonno nella coda che mi avvicina alla linea di partenza. Sono pronto? Ormai non c’è più tempo per chiederselo. Ma per fortuna non bisogna partire quando si è pronti, ma quando arriva il momento. E il momento è quasi arrivato. 

Le cinque di mattina, è ancora buio. L’altoparlante diffonde The Final countdown. Una voce scandisce il conto alla rovescia: dix, neuf..trois, deux, un…Partiamo. A gruppi di dieci, ogni minuto, per evitare accalcamenti. Due pedalate e, uscito dal campeggio, mi ritrovo nel buio della notte, improvvisamente da solo, nel silenzio. E tutta la tensione accumulata svanisce nel momento in cui realizzo che sto pedalando, semplicemente pedalando, e che si tratta soltanto di continuare a farlo, metro dopo metro, per mille chilometri.

Le prime pedalate, nel silenzio.

A proposito di chilometri: oggi vorrei arrivare a farne 270, per arrivare a Zicavo, un paesino di montagna nel centro della Corsica, posto tappa del GR20, dove per precauzione ho prenotato una camera d’albergo. La distanza è quella per la quale mi sono preparato, coerente con il mio obiettivo: finire entro quattro giorni. Meno dei cinque che rappresentano il tempo limite, più dei due o tre che impiegheranno i primi. A preoccuparmi non è tanto la distanza, quanto il dislivello. E il fatto di dover ripetere lo sforzo per più giorni. Solo nella prima tappa, nei 270 Km fino a Zicavo, mi aspettano 5500 m da scalare: quasi un Kilimangiaro. Cosa succederà – mi chiedo da mesi – sul Col de Verde, ovvero sull’ultima, lunga salita prima di Zicavo? In che condizioni ci arriverò – se ci arriverò? Il piano B è molto semplice: fermarsi prima, e comunque oltre i 200 Km che sono la distanza minima prevista – pena l’eliminazione dalla classifica.

Ma a tutto questo, ora che sono appena partito, non sto pensando. C’è solo il presente, e il presente è il fresco della notte e le prime luci del giorno che iniziano a scoprire il mondo attorno a me. Un mondo che è subito in salita, e piuttosto dura: dopo pochi chilometri, il Col de Teghime, con i suoi 6 Km all’8%, è la prima delle 15 che mi aspettano oggi. So che in queste prime fasi, in cui siamo ancora tutti insieme, devo evitare di farmi prendere dall’eccitazione e di forzare oltre il dovuto; lo affronto comunque con un buon passo regolare e arrivo in cima proprio all’alba, poco prima delle sei. Da qui si vede il mare sul lato occidentale del Cap Corse, verso Saint Florent, dove – se tutto andrà bene – passerò fra tre giorni, dopo aver percorso quasi 900 Km e ormai prossimo alla fine. 

Aurora “dita rosate” sul Col de Teghime

Affronto prudente la prima discesa. Diversi concorrenti mi superano, ma preferisco non prendere rischi. Non sono mai stato un discesista spericolato, e non ho intenzione di diventarlo ora: sfrutterò le discese per recuperare. Oltrepassato il Lac de Padula, la strada riprende a salire e il percorso si addentra nelle viscere della Corsica seguendo una tortuosa stradina di campagna. Durante il tratto verso Pieve mi supera Tommaso, il mio forte compagno di bungalow, che alla fine sarà quattordicesimo. Ha un altro passo: lo saluto, lo rivedrò solo all’arrivo. 

A proposito del passo. Una prova di ultracycling richiede di saper gestire bene le energie, e trovare un ritmo sostenibile che consenta di arrivare in fondo senza schiantare. Una regola d’oro è ben sintetizzata da James Mark Hayden, plurivincitore della Transcontinental Race: se puoi parlare normalmente, bene. Altrimenti, rallenta. Rispetto a una normale uscita, e ancor più rispetto a una Gran Fondo, le lunghe distanze si percorrono più lentamente. Il fatto è che ognuno ha la sua “lentezza sostenibile”, e quella di Tommaso era una lentezza più veloce della mia. Avrei potuto seguirlo, magari anche per diversi chilometri, ma avrei messo a serio rischio il resto della gara. 

Dopo 50 Km, poco prima delle otto di mattina, arrivo in cima al Col de Bigorno, avendo già scalato 1500 metri di dislivello. I concorrenti sono ancora abbastanza raccolti, e càpita di procedere assieme ad altri, rigorosamente affiancati o distanziati di qualche metro: le regole della gara, come in tutte le prove di questo tipo, non prevedono infatti la possibilità di rimanere in scia. Incontro alcuni compagni che poi ritroverò più di una volta nel seguito: Jean-Marc “Jim” Jacquot, James Fox. I primi sono già lontani: Stéphane Lombard, che poi sarà il vincitore, ha già più di mezz’ora di vantaggio e viaggia – per dare un’idea della differenza – fra i 4 e i 5 Km/h più veloce di me! Ma – anche se a tutti gli effetti è una gara – di certo non mi faccio prendere dalla tentazione di forzare. Non ho idea di quale sia la mia posizione attuale. Potrei guardare sul tracker, ma non mi interessa e non lo farò mai da qui alla fine. Però…è una gara: c’è un obiettivo, e un senso di urgenza nel perseguirlo, che si traduce nella costante attenzione al presente, all’essenziale, a ridurre al minimo le perdite di tempo. Pedalare, bere, mangiare, osservare, ascoltarsi. Sic et simpliciter.

Primi cento chilometri. Un buon inizio, tempo bello, temperatura ancora fresca. Pedalo ancora in scioltezza nonostante abbia già abbondantemente scalato più di duemila metri. Ho acqua a sufficienza e per il momento non ho bisogno di fermarmi. Altri, più rilassati di me, lo fanno. A Piedicroce, Km 108, mi separo da Jean-Marc, con il quale ho pedalato per un lungo tratto. Bel tipo, scalatore nonostante abiti a Parigi, autore, mi racconta, di un folle doppio everesting sui rulli. Sono passate già cinque ore dalla partenza e per lui la tentazione di un caffè è irresistibile. Ma sono appena le dieci, mi sento “nel flusso”, troppo presto per interromperlo. Proseguo, lo saluto, ci incroceremo più in là.

La strada continua ad alternare salite – generalmente pedalabili – e discese: il lungo Col de St. Antoine, l’ascesa verso Croce, poi il Col d’Arcarota, la bella discesa verso Pietra di Verde, la Bocca di San Gavino, dove il caldo comincia a farsi sentire. Il percorso piega verso ovest, addentrandosi nel cuore della Corsica. I villaggi si fanno più rari, le strade – se possibile – ancor più isolate. Verso mezzogiorno e mezzo sento che è finalmente arrivato il momento di fare una pausa e di mangiare qualcosa di più sostanzioso. Mi sono regolarmente alimentato (barrette, frutta secca che tengo a portata di mano una borsetta apposita, il food pouch, sul manubrio), sto bene ma so che mi attende una seconda parte impegnativa. Mi fermo nel piccolo, remoto villaggio di Matra, dove nella piazza ci sono due altri concorrenti che approfittano della fontana e del bar. E’ la prima vera sosta (se si eccettuano un paio di rapidi rifornimenti d’acqua) dopo più di sette ore in sella, 145 Km e già più di 3000 metri di dislivello superati. Più di metà tappa: festeggio con la baguette che avevo preparato ieri sera, e – gran lusso – un caffè al bar, dove gli avventori abituali, incuriositi dai ciclisti e dalle loro bici tappezzate di borselli aerodinamici, si informano su cosa stia succedendo. “Non è una gara..se lo fosse non si fermerebbero al bar” dice uno. “Ma sì..è una gara non vedi che hanno il numero?” gli ribatte un altro. Io confermo, è una gara, ma molto lunga, dove ogni tanto si può anche concedersi una sosta per un caffè. Lo pago e riparto.

Dopo Matra la strada riprende a salire, in una regione remota, verdissima ma dalla vegetazione bassa, con l’eccezione di qualche pino, e comunque senza ombra. Dopo un breve tratto in compagnia di un altro concorrente mi ritrovo solo, e dopo un’ora scollino su un passo senza nome, oltre i mille metri. Controllo il roadsheet (la mia tabella di marcia preparata meticolosamente in lunghe serate invernali, stampata in schede plastificate e che tengo sempre ben visibile sul cruscotto) e faccio mentalmente il punto. Sono le due e mezzo del pomeriggio. Ho percorso 161 Km, con più di 3500 metri di dislivello. Sono più di un’ora in anticipo rispetto a quanto pensavo. Ho mangiato e bevuto regolarmente, fa caldo ma ho acqua e mi sento abbastanza bene. Le gambe girano decentemente, non ho dolori. Mancano circa 100 Km a Zicavo, ora mi aspetta una bella discesa e poi ancora due lunghe salite, la prima fino a Vezzani, e poi la più lunga della giornata, il temuto Col de Verde. C’è ancora parecchio da fare, ma sono a buon punto. Mi butto in discesa verso Altiani – e verso la prossima salita.

La prossima salita è quella per Vezzani, piuttosto lunga, più di 11 Km, ma regolare come piace a me. Incontro Jean-Yves Lolli, enfant du pays, che conosce benissimo queste strade. Lui ha intenzione di proseguire fino a Zonza, ovvero 60 Km in più del mio obiettivo di giornata. “Il Col de la Vaccia, quello dopo Zicavo, è facile”, mi dice. E mi fa venire qualche dubbio: avrei dovuto osare di più e puntare oltre? Boh, vediamo, di strada ce n’è ancora, comunque. Al termine della salita mi fermo per una foto al cartello del paese di Vezzani, una piccola celebrazione al mio professore di filosofia del liceo, Mario Flavio Vezzani, una cartolina che invierò ai miei vecchi compagni di classe. Nella piazza di Vezzani incrocio uno dei favoriti della gara, Anthony Duriani. Sono sorpreso di vederlo lì e mi fermo a chiedergli cosa è successo, mi dice che si sente male e che si ritira. Mi dispiace molto, lo saluto augurandogli una pronta ripresa, e proseguo. 

L’ennesima discesa è quella che conduce al Defilée de l’Inzecca, uno spettacolare canyon che piega verso il centro dell’isola. Siamo a metà pomeriggio, la luce inizia ad addolcirsi ma è ancora caldo. Dopo undici ore di sella e più di 200 Km, rimane l’ultima asperità da affrontare: il Col de Verde. E’ una salita molto lunga, 28 Km, nel complesso non dura, con diversi tratti facili ma con gli ultimi sette chilometri attorno al 6%. Per ora sto bene, ma so che sto per entrare in una fase che potrebbe rivelarsi difficile. L’ultima salita è quella che ti presenta il conto. Ricordo la difficoltà ad avanzare negli ultimi chilometri sull’Izoard qualche anno fa, dopo aver superato con troppo slancio Telégraphe e Galibier. Oppure le gambe dure che spingevano con fatica il 34×28 sulla Croix de Fer in una traversata bikepacking (stavolta, memore di momenti come quello, ho optato per un 34×34). Ma anche recentemente, la sofferenza alla fine di una lunga uscita di preparazione, sulla salita che dalle parti di Firenze chiamiamo “Il Mostro”: 10% fisso per quattro Km alle due di pomeriggio. Insomma, sto entrando in un terreno incognito. 

Alla base della salita, fermi ad un semaforo per lavori in corso, incontro altri quattro o cinque partecipanti, ma ben presto ci separiamo, ognuno col suo ritmo. Oltrepasso Ghisoni, al Km 230, che avevo considerato come possibile posto tappa durante lo studio del percorso. Ma effettivamente è ancora presto per fermarsi. Continuo l’ascesa, sempre con un passo regolare. La strada sale nel bosco, è più fresco, bene. La stanchezza ora inizia a farsi sentire, forse più nella testa che nelle gambe. Vedrò poi dai dati che gli ultimi chilometri della salita, i più impegnativi, li ho percorsi con valori in linea e forse leggermente migliori di quello che mi sarei aspettato. Ma quando arrivo in cima, accolto da un paio di mucche che gironzolavano attorno al rifugio del colle, sento che per oggi è abbastanza, e sono contento che rimanga solo una discesa per raggiungere Zicavo. 

Arrivo a Zicavo poco dopo le sette, ben due ore e mezzo in anticipo rispetto alla tabella di marcia. Com’è possibile? Una prima differenza è che avevo previsto di pedalare per il 92% del tempo, percentuale che nel seguito della corsa si rivelerà ambiziosa, ma che nel primo giorno sono riuscito anche a migliorare (94%, appena 47 minuti di soste in totale su 14 ore totali). Per il resto, evidentemente sono andato un po’ più meglio di quanto immaginavo, con una media superiore ai 20 Km/h quando mi sarei aspettato, per questo primo difficile giorno, di stare attorno ai 18 – 19 Km/h. 

Avrei potuto andare oltre e proseguire? Affrontare la notte e puntare al CP1 ai 400 Km? Penso di sì, ma la componente mentale aveva iniziato ad agire. Avevo programmato di fermarmi, e in prossimità dell’arrivo la testa ha iniziato ad accettare i messaggi che il corpo inviava, riassunti in un perentorio: adesso basta. Insomma, non ho nessuna esitazione: è (relativamente) presto, ma sono soddisfatto della mia giornata e mi fermo all’Hotel du Tourisme, proprio sulla strada. Invio un messaggio sul gruppo Whatsapp dei partecipanti per comunicare lo stop (è una misura di sicurezza richiesta dall’organizzazione, che tiene sotto controllo eventuali soste lunghe non annunciate), e vedo che sono fra i primissimi a farlo. Tanto meglio, avrò un po’ più di tempo per rilassarmi.  

Una volta nell’Hotel, chiedo se posso tenere la bici in camera (la prassi abituale per velocizzare le operazioni di ripartenza), ma mi viene risposto gentilmente di no. Non insisto (per ora). Giunto in camera, first things first: metto i dispositivi in carica e mi dedico alle operazioni di lavaggio della salopette e della maglia, strizzandoli e utilizzando l’asciugamano per assorbire il più possibile l’acqua. Li stendo nella stanza della caldaia dove ho lasciato la bici, saranno probabilmente asciutti per domattina. Doccia rigenerante, scambio qualche messaggio con famiglia e amici; mi dicono che sono fra i primi venti..sono sorpreso ma so che non durerà, molti proseguiranno oltre e qualcuno pedalerà tutta la notte. Eccomi pronto per la cena. L’abbigliamento serale non è dei più chic: salopette di riserva, maglia termica a maniche corte e infradito salvaspazio autoprodotte. Nel frattempo stanno arrivando all’hotel altri partecipanti. 

Ci ritroviamo a tavola in diversi: Marco Bernini, James Fox e Francesco Ghia (che incontrerò nuovamente il giorno dopo), poi Jean-Marc e – sorpresa! – anche Federico Rossi. Con Federico ci eravamo sentiti prima della partenza perché avevamo scoperto che abitavamo vicino: io a Fiesole, lui nel Mugello. Non siamo riusciti a vederci prima della partenza, ma ci siamo incontrati sul traghetto per Bastia, ed ora eccoci qua davanti a un piatto di lasagne al brocciu in un paesino sperduto nelle montagne della Corsica. Ci scambiamo impressioni sulla giornata, è bello condividere l’esperienza che stiamo facendo. Parliamo di obiettivi. James dice che avrebbe voluto arrivare al CP1 di Porto Vecchio, ovvero 400 Km, ma che la durezza della giornata lo ha indotto a fermarsi prima. Federico (come me) si era prefissato di arrivare a Zicavo, ed era felice di esserci riuscito senza grossi problemi. Chissà come andrà domani? Sento un ragazzo con la barba lunga e folta (Francesco, poi ci conosceremo) annunciare che partirà domattina alle due. Alle due! Penso che per me è troppo presto, spero sia una spacconata, gli altri sorridono ma non rivelano l’ora della partenza. Vuoi vedere che sarò l’ultimo a ripartire? Tra una chiacchiera e l’altra si sta facendo tardi e sto dilapidando il piccolo vantaggio di tempo accumulato, avrei dovuto andare a dormire prima, come da manuale dell’ultraciclista provetto (no faffing, non cazzeggiare!). Chiediamo al gestore dell’albergo se può lasciarci qualcosa per colazione domattina, dato che intendiamo partire presto. Quanto presto? Ci chiede? Molto presto, rispondiamo con espressione complice. Torno in camera, dove nel frattempo sono riuscito a riportare la bici dopo aver finalmente ottenuto il consenso del gestore, dispongo ordinatamente quello che mi servirà domattina per ripartire, punto la sveglia alle 4:30 e mi addormento rapidamente.

2: l’inferno dell’Ospedale

E in effetti la sveglia suona. Le 4:30. Presto? Tardi? Alla fine ho scelto di muovermi più o meno alla stessa ora di ieri; l’idea è quella di pedalare anche oggi per circa 250 Km, un quarto del percorso ogni giorno. Recupero e indosso gli indumenti lavati la sera, che nel frattempo si erano perfettamente asciugati, preparo la bici e vado nella sala da pranzo. Dove non c’è nessuno. E, a giudicare dai resti della colazione sul tavolo, quasi tutti se ne sono già andati. Lo sapevo…non solo mi sono fermato presto, ma riparto anche tardi! Vedrò poi che nella notte ho perso una cinquantina di posizioni. I primi non hanno dormito proprio, altri sono andati più avanti di me, o si sono svegliati prima. Ma non sto pensando a questo, ora c’è solo da rimontare sulla bici e pedalare.

Ed eccomi di nuovo in sella, ore 5:10. E’ ancora buio, ma non è freddo e – dato che la strada riprende subito a salire – ben presto tolgo il giubbino e rimango in maglia a maniche corte. Durante il lungo – ma pedalabile – Col de la Vaccia supero e saluto qualche altro partecipante. Mi sento bene, incredibilmente fresco nonostante le fatiche di ieri. Le luci dell’alba mi infondono energie, che mi servono per affrontare il più impegnativo Col di Bavella. Lo scenario che mi sì presenta in cima al passo è meraviglioso: i picchi di granito delle Aiguilles de Bavella illuminati dal primo sole.

Le Aiguilles de Bavella, nelle prime luci del mattino.

Da lì, in discesa, verso il mare della costa sud-orientale. Mi fermo per un’abbondante e più soddisfacente seconda colazione in una boulangerie a Solenzara. Mancano una quarantina di Km al primo Checkpoint, posto al Camping l’Oso, poco prima di Porto Vecchio. Incontro Olivier Poulain, uno dei numerosi ciclisti di Grenoble che partecipano alla gara, ha un buon passo da rouleur. Dopo un tratto lungo costa facile (ma trafficato), supero la bosse di Conca, una salita non lunghissima ma tosta, con tratti al 10%. Inizia a far caldo. Arrivo al checkpoint alle 11:20, dove subito dopo giunge anche Federico. Il tempo di fare due chiacchiere e un rapido rifornimento d’acqua e riparto, per affrontare quella che sulla carta – ma come scoprirò a breve non soltanto – è la maggiore asperità della giornata: il Col de l’Ospedale. 

Il Col de l’Ospedale è una salita di 16 Km al 5,3%, che da Porto Vecchio conduce fino ai 900 metri dell’omonimo villaggio nelle montagne della Corsica del sud. Già alla base della salita fa molto caldo. E’ mezzogiorno passato e ci sono 33°. Non c’è un filo d’ombra; l’aria è ferma, neppure una piccola brezza. Dopo poco mi accorgo che – errore gravissimo – ho dimenticato di riempire la seconda borraccia. Manca ancora molto alla fine e già mi trovo a dover razionare l’acqua. Mi impongo di bere ogni chilometro, ma la temperatura cresce ancora e avanzare è sempre più faticoso. Nonostante tutto vado avanti. Conto i chilometri che mancano alla vetta. Meno dieci, meno nove..incontro Didier Lore e successivamente affianco un altro ciclista (vedrò poi che si tratta di Bela Kuzler) che procede molto lentamente. Gli chiedo come va, mi risponde scuotendo la testa: “game over…game over”. Proseguo. Meno otto. Non sono neppure a metà è la temperatura è arrivata a 38°. La mancanza di acqua mi preoccupa e mi scava nella testa, ma cerco di mantenere la concentrazione, finché..miracolo! Sulla mia destra vedo una fontana. Mi fermo e bevo, poi getto la testa sotto l’acqua, ahhhhh, che piacere immenso!! Mi raggiungono Didier e Bela, anche loro si fermano e poi riprendono la marcia. Io invece indugio prima di ripartire, e quando finalmente mi rimetto in sella mi sento svuotato, completamente privo di energie. La Crisi. Il Coup de pompe. La Fringale. Eccolo, il momento più temuto dal ciclista. Potrebbe essere la fame, o un colpo di calore, penso. Riesco comunque a mantenere un po’ di lucidità ed andare avanti al minimo, ma quando dopo un paio di chilometri vedo un ristorante sul lato della strada decido di fermarmi, e con me anche Didier e Bela. La sosta, nonostante la baguette più cara di tutta la Corsica, si rivela benefica. Quando riparto manca poco alla fine e sto decisamente meglio. La temperatura si abbassa, c’è anche dell’ombra. Ho appena sperimentato il primo up and down

La seconda parte della giornata sulla carta è più semplice. Mancano un centinaio di Km all’obiettivo di oggi (ho prenotato nel frattempo una camera in un b&b poco dopo Olmeto). Le salite più lunghe sono alle spalle, sono le due del pomeriggio e – se non ci saranno intoppi – arriverò prima delle otto. Tutto sommato bene, anche se, rispetto a ieri, mi sono concesso molte più soste, oltre quello che mi ero (ottimisticamente, alla prova dei fatti) prefissato. Ma le condizioni (caldo, fatica) sono diverse, bisogna accettarlo e far tesoro dell’esperienza.

Dopo lo scollinamento e un piacevole tratto all’ombra la strada piega decisamente verso sud-ovest, in direzione della costa occidentale. Nella lunga discesa incontro per la prima volta Michi Hange, che avevo notato alla partenza per la maglia con su scritto “Ultracycling Italia”. Mi rivolgo a lui in italiano ma mi accorgo che italiano non è, provo col francese ma senza successo (scoprirò poi che è tedesco). Va più lentamente di me, ma evidentemente si ferma molto meno, penso. C’è da imparare, mi dico.

La strada riprende a salire. Sul roadsheet vedo che mi attendono venticinque chilometri “con quattro salite non dure per un totale di 12 Km di salita”. Il classico mangia e bevi insomma. A una fontana, incontro di nuovo James e Francesco, che erano partiti stamattina dallo stesso hotel di Zicavo. Assieme, percorriamo questo tratto misto, sempre nel verde, fiaccati dal caldo e dalla lunga giornata in sella. Il passo in salita è ormai quello, motore poco sopra al minimo, rapporto leggero, cadenza fra le 70 e le 75 pedalate al minuto. Quantomeno, favorisce la conversazione. Attraversiamo Sartène, il paese più grande della zona, e finalmente, dopo Grossa, ecco di nuovo il mare, sul lato opposto dell’Isola, il Golfo di Valincu. Mancano una trentina di Km al mio b&b, saluto James e Francesco che si fermano in cerca di rifornimenti. Hanno intenzione di andare oltre: vedrò poi che James farà una quarantina di Km in più di me, Francesco addirittura proseguirà nella notte per arrivare al CP2. Mi tornano i soliti dubbi…avrei dovuto puntare a fare di più? 

Gli ultimi chilometri, sulla carta facili, li patisco parecchio. Il clima è pesante, l’asfalto ribolle. La strada lungo la costa è trafficata. Forse anche in questo caso è scattata la trappola psicologica che ti fa sentire più stanco quando sei vicino alla meta; comunque sia, quando finalmente, anche oggi verso le sette, arrivo al b&b (I Casilari, poco dopo Olmeto) sono proprio contento di fermarmi. Il posto è piacevole, i proprietari gentili: chiedo e ottengo (dopo aver promesso solennemente di fare attenzione!) di tenere la bici in camera. C’è anche una piscina, ma preferisco – non prima di essermi occupato del bucato quotidiano, naturalmente – una bella doccia. Il posto è isolato, ma fortunatamente, proprio di fronte, c’è un ristorante. Indosso la mia tenuta da sera, attraverso la strada col passo ingessato delle scarpette da ciclista, scelgo un bel tavolo all’aperto e ordino – ancora una volta – lasagne al brocciu e (dopo aver rassicurato il cameriere che mi avvertiva che si trattava di grosse porzioni) un hamburger con patatine. Alla fine, proprio mentre stavo per alzarmi, ecco che arriva Jean-Marc! Anche lui, partito come me stamattina da Zicavo, ha trovato posto nello stesso b&b. Ma stavolta non mi fermo a chiacchierare, voglio approfittare del fatto che sono arrivato presto e dormire il più possibile. Lo saluto e torno nella camera, dove dopo aver preparato la bici e le borse, metto la sveglia un po’ prima di ieri, alle quattro. Il sonno non tarda a venire.

3. il giorno piu’ lungo

Nella notte mi sveglio all’improvviso. Guardo l’ora: le una e tredici. Troppo presto. Provo a riaddormentarmi, ma non ci riesco e dopo un po’ decido di alzarmi. Tre ore di sonno, ma non faccio neppure lo sforzo di contarle: c’è da pedalare, e basta. La salopette e la maglietta sono ancora umide, per cui utilizzo la tenuta di riserva che mi ero portato. Mangio qualcosa delle scorte (anche stamani niente caffè) e alle due e mezzo sono fuori. Notte fonda. A differenza di ieri, per vedere le prime luci ci vorrà ancora parecchio. L’inizio è subito in salita: su e giù (ma soprattutto su) per una ventina di chilometri, fino a Acqua d’Oria. Le strade sono deserte, i rari piccoli abitati che attraverso luoghi spettrali, i maiali corsi lungo la strada l’unico incontro possibile. Il buio cambia la percezione della distanza, il mondo si riduce al fascio luminoso del faretto anteriore, gli unici rumori sono quelli della bici, e del mio respiro. A che si pensa di notte, pedalando? E’ un flusso continuo, un dialogo dentro-fuori che mescola misurazioni, calcoli, sensazioni, pensieri a ruota libera, rumori, silenzi in una sorta di meditazione in movimento. Tipo: controllo il GPS, sono in traccia,  la prossima svolta è fra due chilometri, ancora ottocento metri alla fine della salita, cazzo qui è al nove per cento ma fra poco finisce la parte dura. I dati della potenza. Stai tenendo un ritmo basso. Che faccio forzo un po’? Meglio di no, la giornata sarà lunga e comunque sono partito prima del previsto. E gli altri? Saranno già in strada? Chissà dov’è Federico, che ha già fatto queste salite ieri sera. Chissà se Francesco è arrivato davvero al CP2. Chissà a che ora riparte Jim. E’ fresco, si sta bene, molto meglio di ieri pomeriggio. Un po’ umido forse? Fra poco devo bere. Ho sonno? No non ho per niente sonno. Ah bene, il dolore al ginocchio stamattina è scomparso. Come vanno le cosce? Ecco una discesa. Attenzione, ci sono animali, frena. Sciogli i muscoli del collo. Ah ecco la nuova salita (si pensa di più in salita), mi mancava. Facile, ma non mi piacciono i saliscendi, meglio le salite lunghe. Forse. Ora bevi, anche se non hai sete. Avrei voglia di una vera colazione, ma prima di qualche ora niente. Intanto mangia qualcosa, no la frutta secca basta non ne posso più. Avanti. Avanti, metro dopo metro.

Il nero cede il passo al blu violaceo che preannuncia l’alba nei pressi di Ajaccio. E’ un bene passare di qui a quest’ora, gli stradoni della periferia di Ajaccio sono sicuramente trafficati di giorno, e ora non c’è anima viva. Quasi all’improvviso, il cielo inizia a rischiararsi, preannunciando l’alba. Dopo l’ennesima salitella sento che mi sta venendo sonno. O è la fame? Dopotutto sono le sei passate da poco e sto già pedalando da quasi quattro ore. Mi fermo un attimo. Le crostatine Bonne Maman della riserva fanno il loro dovere, la sonnolenza passa, ma ho bisogno di una vera colazione, fra un po’ ci sarà una salita lunga. Controllo il roadsheet, non ho segnato niente in questa zona, e poi è ancora troppo presto per sperare di trovare qualcosa di aperto. Invece, mentre mi stavo rassegnando ad una colazione a base di barrette, quelle chanche! All’incrocio con una provinciale nella periferia di Ajaccio, prima di immettersi nelle stradine che portano alla Bocca di Sarzoggiu, ecco una boulangerie appena aperta. Mi fermo. Durante la sosta arrivano altri due concorrenti, una coppia. Croissant, pain aux raisins, caffè. Nuove energie, anche mentali. Riparto. Alla base della salita, in sosta sul lato della strada, vedo Federico, grande! Lo saluto, gli chiedo come va ma non mi fermo, sarebbe la terza sosta in un’ora, ci rivedremo a breve di sicuro.

La salita alla Bocca di Sarzoggiu l’avevo fatta un anno fa, ero in vacanza da queste parti e con il mio amico Cecco avevamo portato le bici. Me la ricordavo bella, ombreggiata e facile. A rifarla ora, dopo quasi 600 Km: bella e ombreggiata sì, ma proprio facile no. Impiego una cinquantina di minuti per superare i suoi 9 Km al 5,5%, cercando di tenere un’andatura decente (che a questo punto, per dare un’idea più tecnica, significa una VAM di 600 m/h, una potenza al 60% – la classica zona 2 – e una frequenza cardiaca sui 115 bpm, ovvero – per me – poco più di una frequenza di quello che in gergo si chiama recupero attivo). Il panorama sul Golfo di Sagone, una volta giunto in cima (siamo oltre i 600 m di altitudine) ripaga dello sforzo. Guardo l’ora, sono le sette e mezzo di mattina, a casa stanno facendo colazione, io pedalo già da cinque ore. Durante la discesa, a una fontana, mi raggiunge Federico e proseguiamo insieme. Il morale è alto, entrambi siamo entrati nel ritmo della gara, pienamente immersi in quello che stiamo facendo, e condividere queste sensazioni le rende ancora più intense. La discesa ci porta nuovamente sulla costa. Federico si ferma a far rifornimenti, io proseguo verso il CP2 di Porto. Mancano una cinquantina di Km, una prima parte vallonata con i soliti odiati strappetti precede il Col di San Martino, una salita più lunga e regolare che in un’oretta scarsa mi conduce a uno dei punti più spettacolari dell’intero percorso: le Calanche di Piana. Nel momento in cui ci arrivo sono circa le undici di mattina e la strada è piuttosto frequentata da turisti, ma senza eccessi. 

Il check Point di Porto è al ristorante la Cigale, dove ci accolgono i Race Angels con il consueto calore. Ho recuperato qualche posizione rispetto al CP1, dove ero precipitato oltre il sessantesimo posto. Arriva anche Federico. Mangio una fetta di torta al ristorante e riparto poco dopo mezzogiorno. Sosta lunga, quasi tre quarti d’ora, ma sono ampiamente in tabella di marcia e posso prendermela comoda: ho già fatto 145 Km, me ne restano da fare ancora 125 per arrivare all’obiettivo di giornata, un hotel a Speloncato, proprio alla base della salita più dura dell’intero percorso: La Bocca di Battaglia. Nella pianificazione del percorso, avevo calcolato che, se avessi rispettato la media che sto effettivamente tenendo, mi sarei ritrovato con tutta probabilità ad affrontare questa salita la sera tardi. Per cui, per sicurezza, vista anche la penuria di alloggi in quella zona interna della Corsica, avevo prenotato in anticipo un hotel prima della salita in modo da affrontarla al mattino in condizioni sperabilmente migliori. Prima di partire, sono stato molto indeciso sul prenotare questo hotel. Sapere di avere una tappa già fissata toglie spazio all’improvvisazione, ma a questo punto della giornata mi sembra una buona scelta, e comunque c’è ancora da faticare per arrivarci.

Thomas Delaplace poco prima del difficile tratto con l’asfalto irregolare. Faremo un tratto insieme fino a Calvi.

Nella salita subito dopo Porto incontro e sorpasso nuovamente “Ultracycling Italia”. Non mi capacito di come abbia fatto di nuovo a essere davanti a me! Anche oggi ho indugiato troppo nelle pause, è evidente. Nel frattempo il cielo si sta rannuvolando, non sembra esserci rischio pioggia ma umidità e vento rendono meno piacevole pedalare. Ma la brutta sorpresa non viene dalla pioggia, bensì dal fondo stradale. Per un lungo tratto, l’asfalto della D81B dal bivio verso l’Argentella è completamente rovinato, molto peggio di uno sterrato, pieno di buche e irregolarità. Un calvario di oltre di venti chilometri dal quale esco sfinito ma – fortunatamente – senza danni meccanici o fisici. Il panorama lungo la costa, magnifico e solitario, e il sole del pomeriggio che torna a far capolino dietro alle nuvole sembrano offrirsi come doni riparatori dopo questa ora lunghissima, nella quale ho più volte invocato gli dèi in maniera non proprio amichevole.

Oltrepasso Calvi (con un’altra breve sosta a una stazione di servizio per bere qualcosa di fresco e riapprovvigionarsi – in previsione della mattina successiva – di cibo di emergenza, Snickers e simili) dove, dopo un lungo tratto costiero, il percorso piega nuovamente verso l’interno dell’isola. Il paesaggio cambia rapidamente, dalla costa rocciosa ai monti della regione della Balagne. Affronto l’ultima (dura) asperità della giornata, il Col de Salvi. Dodici chilometri con una seconda parte difficile, con tratti fra 8% e 9% che affronto con le cosiddette energie residue (raschiare il fondo del barile, si dice, e rende meglio l’idea). In discesa, incontro un’auto dell’organizzazione con i fotografi che si appostano e mi riprendono. Raggiungo finalmente Speloncato. Sono le sette e mezzo passate, la giornata è stata lunghissima: più di sedici ore da quando sono partito nel cuore della notte. Sono contento di fermarmi. Avrei potuto proseguire, mi chiedo ancora una volta? Guardo l’attacco durissimo della salita che mi aspetta domattina. Avrei potuto proseguire. Ma sono contento di fermarmi.

Speloncato è un villaggio aggrappato a uno sperone di roccia, e l’albergo A Spelunca, con le sue accoglienti camere retrò di un palazzo settecentesco, già dimora del Cardinal Savelli ministro di Pio IX, è il posto perfetto per rilassarsi in vista dell’ultimo sforzo. Solita routine (stavolta non lavo maglia e pantaloncini, contando che domani sarà l’ultimo giorno), dispositivi in carica, doccia, tenuta da sera e ottima cena al ristorante dell’albergo, durante la quale vedo arrivare Olivier (che avevo incontrato il secondo giorno) e Jean-Luc (anche lui del gruppo di Grenoble, ha recuperato molto terreno nonostante un problema al cambio che lo ha costretto a una lunga sosta). Il gentilissimo albergatore mi fornisce addirittura la colazione per la mattina dopo, sfornando un paio di croissant caldi che porto in camera. Sono le dieci, dalla finestra sento che in piazza c’è animazione, un coro di canti corsi. Sarebbe piaciuto alla mia amica Claudia, penso. Ma non ho la forza di uscire a vedere. Non controllo neppure il tracker per vedere le posizioni, ho solo visto che dal gruppo Whatsapp che Federico si è fermato qualche Km prima di me; non vedo messaggi di James e Francesco, probabilmente puntano ad arrivare nella notte. Ultimo sforzo. Metto la sveglia alle due e mezzo e in pochi secondi i canti polifonici in piazza mi accompagnano in un sonno profondo.

4. finisher

Apro gli occhi, guardo il telefono. Le 2:28. Mi accorgo che non avevo attivato la sveglia, che avrebbe dovuto suonare due minuti dopo. Ancora una volta, un segnale proveniente da qualche recondita parte della mente mi richiama in strada. Mi preparo, e attraversando in silenzio le stanze finemente decorate dell’hotel scendo al seminterrato, dove avevo lasciato la bici. Quelle di Olivier e Jean-Luc ci sono ancora. Esco dall’albergo, ed eccomi di nuovo in strada, nella notte. Mancano meno di duecento chilometri all’arrivo, se non ci saranno inconvenienti oggi sarà l’ultimo giorno. Non è freddo, ma c’è un vento fortissimo. Mando un messaggio sul gruppo Whatsapp per informare l’organizzazione che sto ripartendo, vedo che Federico è già in strada. Probabilmente è qui vicino, penso, anzi forse è già davanti.

Riaggancio i pedali e attacco la salita, un muro su cemento al 18% che introduce ai 6 Km al 10% del Col de la Battaglia. Pochi metri e sento un rumore, la pedivella sinistra si è bloccata. Controllo: la pompa si è spostata e facendo contrasto con il power meter lo ha staccato dalla pedivella. Power meter rotto. Bell’inizio, ma niente che mi impedisca di proseguire. Sfogo l’incazzatura sui pedali e dopo qualche centinaio di metri veramente bastardi mi ritrovo sulla strada principale. Lo scenario non è dei più rassicuranti. Buio pesto. Fondo stradale dissestato. Pendenze in doppia cifra. Raffiche di vento fortissime, a tratti spaventose. L’unica cosa che vedo quando entrano nel cono di luce del faretto sono i cartelli chilometrici, che ricordano (come se ce ne fosse bisogno) la pendenza ai ciclisti che decidono di sfidare “le col le plus dur de la Corse”. Su un tornante, un po’ più avanti, mi sembra di scorgere una luce in movimento. Un altro folle che si è avventurato quassù in bici a quest’ora? Forse è Federico? Mi tocca inseguire. Si fa per dire naturalmente: le forze residue sono poche, ma sufficienti a portarmi in cima dopo una quarantina di lunghi minuti. Da qui all’arrivo, mi dico mentre indosso la giacca antivento, ci sarà più discesa che salita.

Ma la discesa non è sempre in discesa. Tratti nel bosco, buio, animali, buche e vento non incoraggiano la mia già scarsa propensione al rischio, e quello che sulla carta era un tratto facile mi mette a dura prova. Attraverso l’abitato di Pioggiola, deserto e spettrale. Nonostante questo, vedere segni di presenza umana scalda un po’ l’animo. Dura poco: su un costone molto esposto, in discesa, raffiche di vento laterale fortissime quasi mi alzano in volo insieme alla bici. Mi concentro distribuendo il peso del corpo sulla bici per ancorarla all’asfalto, riesco a restare in equilibrio. Finalmente, ecco le prime luci. E ben presto l’alba, la quarta in quattro giorni. Quante albe si vedono in una vita? Questa è magnifica, violacea fra monti e mare all’orizzonte.

Una nuova alba pone fine alla notte più dura

La discesa è interrotta da un tratto in salita verso Novella, uno dei pochissimi villaggi di queste zone remote. Passo accanto a una ferrovia monorotaia che serpeggia in queste montagne sperdute, il paesaggio sembra quello di un western di Sergio Leone. Successivamente, la strada riprende a salire, per quella che è una delle ultime ascese della gara: La Bocca di Vezzu, sei Km facili che conducono nel cuore del Désert des Agriates, una regione solitaria e selvaggia, verde di macchia mediterranea a dispetto del nome. La percorro con la luce radente del primo mattino, senza incontrare niente e nessuno. Finora, anche se non sono certo andato forte, non ho fatto soste. Vorrei fare colazione come si deve, ma in questa zona non c’è niente, e se ci fosse sarebbe comunque troppo presto. Ho comunque qualche scorta, e non mi preoccupo. 

Una lunga discesa ed ecco, arrivo a St. Florent. Sono quasi le otto, e mancano ormai un centinaio di Km all’arrivo, senza grosse difficoltà all’orizzonte. Dovevano essere un po’ di più ma l’organizzazione ci ha avvertito che, a causa di forti venti nella parte settentrionale del Cap Corse, il percorso viene modificato, tagliando una trentina di Km. Non mi lamento. Anzi, a questo punto ho voglia di arrivare al traguardo prima possibile. Colazione o no? A St. Florent, anche se è ancora piuttosto presto, potrei trovare qualcosa, ma nell’attraversamento scorgo un ciclista in sosta (lo riconosco, è quello con cui avevo percorso il terribile tratto su asfalto sconnesso prima di Calvi, ricostruirò dopo che si tratta di Thomas Delaplace), e tiro dritto. Le forze residue poche, ma dopotutto ho un numero sul cappello, e questa è una gara. L’unica arma che mi rimane è limitare al minimo le soste. Magari riesco anche a riprendere Federico, se davvero è davanti a me, penso.

Proseguo dunque; siamo sulla costa occidentale del Cap Corse, bellissima e ancora poco frequentata in questo giovedì mattina di giugno. Dopo qualche chilometro, in una rientranza della strada, mi volto e – come temevo – vedo spuntare il ciclista che avevo sorpassato mentre era in sosta a St. Florent. E’ dietro di me di qualche centinaio di metri. Mi ha visto anche lui, suppongo. Mi sta inseguendo, immagino! O magari no, non gliene importa niente e sono io che mi sono proiettato in un universo parallelo, una tenzone omerica dove, novello Ettore spompato, fuggo cacciato da un furibondo Achille capace di spingere ancora un 53×11. Delirio o meno, sto al gioco. Non ho le forze per cambiare passo, per cui tengo duro e non mi fermo. Ci sarà da soffrire da qui alla fine. Il terreno, ondulato, è quello che patisco di più. E poi ho poca acqua. Controllo sul roadsheet, non ho segnato fontane. Qualcosa troverò. Ennesima salitella, attraverso l’abitato di Nonza. Svolto e sulla destra scorgo…ancora lui! Ultracycling Italia! Evidentemente mi ha sorpassato, ancora una volta, nella notte, e ora si è fermato a una fontana. Dovrei farlo anche io, ma proseguo: in fondo ho recuperato un’altra posizione, tutto fa brodo! Insisto, senza guardarmi più indietro. A Pino, poco prima della deviazione dal percorso originale, trovo l’acqua. Mancano poco più di 50 chilometri. Attacco l’ultima salita, quattro Km che attraversano il Cap Corse da ovest verso est. Eccomi di nuovo sulla costa orientale. Avanti. Ancora 35 Km di strada costiera, ondulata ma senza più salite. Mangio uno snicker. Ecco il caldo. Avanti. Bevo. Mi alzo spesso sui pedali, le ferite al soprassella ora danno veramente fastidio. Avanti. Il traffico si intensifica, ecco la periferia di Bastia. Il porto, il centro. Avanti. La strada che porta al campeggio. Ancora un chilometro. Mezzogiorno passato da poco. L’ingresso nel campeggio. La campana che suona all’arrivo. L’arrivo. 

This is the end, my friend

Tre giorni e mezzo per percorrere quasi mille chilometri. Settantanove ore, di cui cinquantatre passate in sella e tredici a dormire. Quaranteseiesimo assoluto in classifica. Tutto è relativo: Stéphane Lombard, il vincitore, ce ne ha messe quarantadue in totale, per dire. “L’impressione più viva l’è che me brüsa tant ‘l “, disse Luigi Ganna, dopo aver tagliato vittorioso il traguardo del primo Giro d’Italia. “Ça va”, riesco a malapena ad articolare all’arrivo, quando i Race Angels e Axel, in stile Bikingman, celebrano con genuina partecipazione il mio arrivo. Sonno, fatica, dolori, tensione accumulata: posso finalmente accogliere – senza doverle più combattere – anche queste sensazioni, e mescolarle con la grande soddisfazione di avercela fatta.

Finisher! Con tanto di medaglietta.

Dopo una lunga doccia, e un pranzo finalmente senza l’assillo di dover ripartire, torno all’arrivo per aspettare Federico (che in realtà era dietro di me, vittima di problemi intestinali sul Col de la Battaglia, che è riuscito a superare: memorabile il suo arrivo davanti alla sua bella famiglia schierata ad attenderlo) e altri compagni di avventura. Trascorro il resto della giornata in una sorta di limbo, piacevolmente svuotato, girando per il campeggio con indosso la maglietta di “Finisher” e un sorriso probabilmente ebete. Chiamo a casa, dove è tempo di esami: Mirabelle da insegnante, mentre Arthur e Zoé stanno preparando terza media e maturità. Penso a quanto mi hanno sostenuto negli ultimi mesi. Senza il loro amore non avrei mai avuto la tranquillità per preparare il mio, di esami. Sento di averlo superato? Prima di partire, Arthur mi aveva detto: devi arrivare primo, babbo. Dopo un piccolo scambio di vedute, ci eravamo accordati su “ok, almeno non ultimo”. Promessa mantenuta dunque.

FINE


friends

Vorrei avere un’immagine per tutte le bellissime persone che ho incontrato. Qui ce ne sono solo alcune. Stéphane Lombard, il vincitore di questa edizione, oltre che un atleta fortissimo è davvero una persona speciale, consacrato all’ultraciclismo dopo un gravissimo incidente che gli ha fatto cambiare prospettiva sull’esistenza. James Fox, giovane ciclista inglese, conosciuto prima della partenza e più volte incrociato sul percorso. Aline Labourdière, personaggio incredibile: abituata ad avventure in montagna, ha concluso un paio d’ore prima di me, fermandosi pochissimo e dormendo ancora meno. Nicolas Sirugue, sfortunato (non ha potuto partire perché la bici non è arrivata in tempo) ma amatissimo come Race Angel. Francesco Rossi, mio conterraneo toscano, tostissimo mugellano, compagno di avventura per lunghi tratti, con il quale è nata una solida amicizia. Didier Lore, con cui ho condiviso la terribile salita dell’Ospedale. Francesco Ghia, giovane e fortissimo hipster valdostano, che a metà percorso ha detto: ora basta, vado all’arrivo; e non si è più fermato. Francesca Pramotton, che nella foto esibisce il profilo altimetrico del percorso che si era portato dietro. Assieme a Francesco Bovone ha completato la gara il tempo massimo nonostante una preparazione con solo un migliaio di chilometri accumulati. Eccezionale! Francesca e Francesco sono ritratti in una foto assieme a Zoubir Ait Abdallah, volto notissimo di Bikingman e amato da tutti per la sua simpatia e umanità. Jean-Marc Jacquot, compagno di percorso nella prima parte, con cui si è stretto un bel legame che forse un giorno ci porterà di nuovo insieme sulla strada. Tommaso Bovi, mio compagno di bungalow, doti umane e ultraciclistiche riunite in una stessa persona. L’ultima foto è quella del Finisher’s Party, un momento di grande condivisione con tutti i partecipanti, Axel , David, Didier i Race Angels e la splendida cena preparata da Anthony Duriani, forte ciclista e chef.

Ma il ricordo più forte, e più triste, è quello che lascio per ultimo, ed è per Bastien. E’ stata la prima persona che ho incontrato al campeggio, con lui e Tommaso abbiamo condiviso il bungalow. Bastien era già lì quando sono arrivato il sabato sera, abbiamo cenato insieme e stabilito fin dall’inizio una bella relazione. Bastien aveva preparato con grande meticolosità la gara, che lo avrebbe riportato, da Parigino, nei luoghi della sua famiglia di origine, nella zona di Piedicroce. Ci siamo fatti coraggio a vicenda prima del via, poi ognuno è partito per il suo viaggio. Bastien era sicuramente meno allenato per le salite (a Parigi non ce ne sono molte), ed era un po’ preoccupato per il primo giorno. La sera ci siamo scritti. Come va? “Impeccable” mi risponde. Era a Vizzavona, dove aveva riservato una camera attorno al Km 200. Bene, ce l’aveva fatta, aveva superato il primo giorno. Poi ha preso il ritmo, e si è goduto il percorso. Alla fine, addirittura, ha deciso di passare per il percorso sul Cap Corse annullato dall’organizzazione a causa del vento forte. L’allarme era rientrato, e lui voleva godersi il viaggio fino in fondo, e arrivare a vedere la Giraglia nel punto più a nord del tracciato, senza fretta. All’arrivo, il venerdì attorno all’ora di pranzo, era felicissimo. Dopo la Corsica, siamo rimasti in contatto. A settembre, mi scrive: “Franco, sono eccitatissimo, incredibile! Avevo contattato l’organizzazione dell’Atlas Mountain Race per avere informazioni sul 2023, e ho scoperto che si era liberato un posto per ottobre. Così ho deciso di farmi un regalo per i miei cinquanta anni, parto!”. Pazzesco, l’Atlas Mountain Race! E’ una delle gare più affascinanti del mondo, nel deserto del Marocco! Ero contentissimo per Bastien. Stavo pensando proprio a lui il 18 settembre, ora lo chiamo per sapere come va la preparazione, mi dicevo. Quando ho ricevuto, sul gruppo che aveva creato per aggiornare gli amici sulla sua nuova impresa, la terribile notizia della sua morte. Improvvisa, inattesa, ingiusta. Mi sembra di conoscerlo da tanto tempo, è rimasto dentro di me, assieme al ricordo dell’intensità con la quale ha vissuto questi momenti. Adieu, Bastien.

Con Bastien al suo arrivo

All pictures © Bikingman Origine

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